Basta un futuro qualsiasi

Ho una pessima memoria: sono una di quelle persone che quando si tratta di nomi, date, anniversari, deve annotarsi tutto. È forse questo il motivo per cui per me è importante fare memoria: più tendo a dimenticare, forse per fare spazio nell’hardware della mia mente, più sento il bisogno di fermarmi davanti ad avvenimenti importanti.

Oggi è uno di quei giorni in cui una parola mi ha imposto di fermarmi: era L’8 agosto del 1956 quando nella miniera di carbone di Bois du Cazier divampa un gigantesco incendio in cui muoiono 262 persone di cui 136 italiani.

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L’entrata della miniera di carbone Bois du Cazier (Marcinelle)

La miniera di Bois du Cazier è stata costruita intorno al 1830, ma è negli anni ’40 del ‘900 che il Belgio registra un forte calo di manodopera locale e decide di sottoscrivere accordi con altri paesi europei per incentivare l’arrivo di lavoratori dall’estero: carbone in cambio di forti braccia. Era il 1946, la Seconda Guerra Mondiale era appena finita e l’Italia era in ginocchio: decine di migliaia di persone decidono così di partire alla volta del Belgio in cerca di un futuro; non necessariamente un futuro migliore, bastava un futuro qualsiasi.

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Il capannone di carico dei treni diretti all’esterno 

Pur avendo un estremo bisogno di queste persone, il Belgio non era disposto ad accettarle e non era raro trovare fuori dai bar cartelli come “Vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”: gli italiani erano poveri, sporchi e ignoranti; e lavoravano sotto terra come i topi. Nel corso degli anni Marcinelle diventa un vero e proprio ghetto, casa e bottega in un certo modo. Tutte le abitazioni e le scuole si sviluppano intorno alla miniera, trasformando il villaggio in una piccola Italia dove si mangiava, parlava e cantava italiano. Anche i pochi belgi impiegati in miniera avevano imparato ad apprezzare la cucina e la cultura italiana.

PICT0052Tutte queste cose me le ha raccontate una donna, nel 2014, quando ho visitato Bois du Cazier. Era la figlia di una delle vittime del disastro, la “catastròfa“, in quella curiosa interlingua franco-italica che si parlava a Marcinelle. Parizia (credo si chiamasse così, ma l’ho già detto, ho una pessima memoria…) ha perso in un solo giorno il padre e lo zio, così come molte sue compagne di scuola. 262 morti in poche ore. La miniera non si può visitare, è troppo pericoloso, ma i familiari delle vittime hanno ottenuto di trasformare uno dei pozzi in un museo, non solo per ricordare i morti, ma anche per non dimenticare le condizioni condizioni di vita e lavoro dei minatori e delle loro famiglie.

Non mi scorderò mai gli occhi gli occhi dolci e tristi di Patrizia, né di quanto sia stata preziosa per me la sua disponibilità a condividere un pezzo della sua vita e del suo dolore con noi: cosa significa stare ammassati in decine in un montacarichi, scendendo per centinaia di metri in quella trappola sotterranea, sentire papà che tossisce e tossisce, in continuazione, perché quando è là sotto respira polveri e gas tossici. Mi ha raccontato la lotta di chi vuole disperatamente essere accettata in un posto che non la considererà mai all’altezza; il crescere in quel “mondo di mezzo” delle seconde generazioni in cui il cervello sembra sempre sull’orlo del corto-circuito.

Marcinelle è una storia dolorosa di emigrazione che mi ha toccato, ma non mi ha stupito, perché è la stessa che ho ascoltato da molte delle persone che, mezzo secolo dopo, ho incontrato durante il loro percorso di ricerca di un futuro qui in Italia. Non necessariamente un futuro migliore, basta un futuro qualsiasi.

 

 

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